CON LA RESISTENZA, PER LA PALESTINA!

Redazionale del NUMERO 1, Marzo 2008

 

Gli ultimi decenni del secolo
scorso hanno segnato l’inizio di una trasformazione che determina sempre più
l’agire politico della borghesia imperialista e, necessariamente, del
proletariato. Pur non potendo in questo luogo ripercorrere le cause che hanno determinato
questo cambiamento, possiamo senza dubbio riconoscere che la tendenza alla
guerra immanente al modo di produzione capitalistico è diventata sempre più
concreta e reale, diventando il terreno principale sul quale il capitale prova
ad arginare la crisi che lo attanaglia. La ristrutturazione del modo di
produzione capitalistico, che ha portato ad una nuova divisione internazionale
del lavoro, ha comportato una escalation militare
da parte delle potenze imperialiste. 1991, Iraq; 1992, primo conflitto
jugoslavo; 1993, operazione “Restore hope” in Somalia; 1999, bombardamenti Nato
contro la Jugoslavia; 2001, attacco all’Afghanistan; 2003, invasione dell’Iraq;
2006, attacco israeliano al Libano: basta scorrere queste date (che non sono
esaustive) per comprendere immediatamente la portata dell’accelerazione
avvenuta, insieme alle conseguenze pesantissime che ha prodotto e produce
tuttora. In questo senso, le principali potenze imperialiste hanno concentrato
sforzi sempre maggiori nell’attività militare, e ciò ha determinato
l’intensificarsi delle dinamiche repressive nei confronti del movimento
comunista internazionale. In questo senso, una data che segna un punto di non
ritorno è  certamente l’11 Settembre del
2001. L’abbattimento delle Twin Towers costituì un ulteriore elemento per
legittimare le guerre imperialiste, mascherate da guerre “per la libertà e la
democrazia”, e sostanziò ulteriormente quel collante ideologico necessario
tanto all’esterno, quanto all’interno, per tacciare di “terrorismo” la benchè
minima voce critica, con tanta più forza se l’opposizione alla guerra muoveva
da basi di classe. Tanto per chiarirci, pensiamo alla Lista Nera dell’UE, nella
quale è stato inserito, ad esempio, il FPLP (ben prima di Hamas, a
dimostrazione della necessità di colpire principalmente le organizzazioni di
classe!); alle leggi speciali che danno attributi di terrorismo a reati propri
della lotta politica come le occupazioni, le interruzioni di pubblico servizio;
alla repressione inaudita e alla condanna generale di manifestazioni di
dissenso come l’incendio dei famigerati “fantocci” nella manifestazione di Roma
per la Palestina del mese di Novembre 2006. Il movimento comunista è andato
così indebolendosi sempre di più, per la repressione subita così come per una
crisi generale di prospettiva. L’arretramento generale sul piano della lotta di
classe ha determinato, dunque, quella certa “afasia” delle parti più
coerentemente antimperialiste del cosiddetto movimento No-War, nonché
l’avanzata delle posizioni più opportuniste all’interno del movimento stesso,
rese forti dal terreno fertile creato loro intorno dalla propaganda ideologica
messa in atto dalla borghesia; questa si è articolata tanto a livello italiano,
tramite la propaganda dell’unità nazionale, quanto a livello europeo, tramite
la proposizione di un’immagine dell’Europa “pacificatrice” e “sociale”. Un dato
di fatto, al di là delle opportune valutazioni di merito, è che mentre la
borghesia rafforzava la sua opera di propaganda all’interno, muovendo diverse pedine,
per creare e mantenere il consenso intorno al crescente impegno militare,
quelle stesse aggressioni trovavano sempre più spesso risposte sul piano
militare, portate avanti da forze organizzate della resistenza con un forte
consenso di massa. La resistenza alle aggressioni si è, dunque, innegabilmente
imposta sulla scena internazionale, non solo per le vittorie militari, ma anche
per il fatto che nessuno ha potuto e può ignorare che, in tutti i paesi
aggrediti dall’imperialismo, si è sviluppata una forte opposizione politica: la
vittoria dell’imperialismo oggi non è né certa né determinata in nessun luogo,
sul piano militare come su quello politico, dal momento che nessun lavoro di
propaganda è riuscito a convincere iracheni, afghani, libanesi, palestinesi,
della “bontà” delle ragioni dell’aggressione. La domanda che ci poniamo,
quindi, è: come il movimento comunista internazionale deve rapportarsi a questo
fenomeno che è reale, e che oggettivamente impatta contro i piani
dell’imperialismo? Per tentare di rispondere, almeno parzialmente, a questa
domanda dobbiamo di necessità partire da un’analisi delle condizioni materiali
e dei rapporti di classe nei paesi dominati dall’imperialismo. Innanzitutto
sgomberiamo il campo da ogni presunzione “evoluzionista” nell’analisi delle
formazioni economico-sociali dominate dall’imperialismo. Il modo di produzione
capitalistico, nella sua fase imperialista, non determina, infatti, lo
sviluppo  autonomo del capitalismo nella periferia. Non si dà, in altre
parole, la possibilità di sviluppare autonomamente le forze produttive in un
paese dominato dall’imperialismo senza
rompere con l’imperialismo stesso.
Soltanto la direzione egemonica del
proletariato può determinare questa rottura, dal momento che la borghesia dei
paesi dominati dall’imperialismo non è altro che parassitaria, dipendente in
tutto e per tutto dalla borghesia imperialista per il mantenimento del proprio
status, e non può, quindi, sviluppare mai un piano di riforme nella direzione
di un autonomo sviluppo capitalistico
in loco perché il suo ruolo, la
ragione della sua esistenza, è il mantenimento dei paesi arretrati in una
situazione di controllo totale da parte delle potenze imperialiste. Perciò
definiamo questa classe borghesia compradora.
Attualmente, andando ad analizzare appena superficialmente la composizione
di classe dei movimenti di resistenza (principalmente in Medio Oriente),
verifichiamo che la componente proletaria, così come le organizzazioni
coerentemente rivoluzionarie e comuniste, sono minoritarie: la direzione
politica è dettata da forze che sono espressione della borghesia compradora, la quale fa leva sugli
interessi della piccola borghesia locale, una classe immiserita che non
spartisce alcun bottino, per rinegoziare con l’imperialismo i termini dello
scambio servizi/benefici, al fine di migliorare la propria “posizione
contrattuale”. Provare a scandagliare la composizione dei movimenti di
resistenza è una condizione imprescindibile per assumere una posizione
corretta, e non serve certo per andare a “fare le pulci” ai popoli che
resistono all’imperialismo. Non riteniamo opportuno e utile, anzi crediamo sia
pericoloso, legare l’appoggio alle lotte di resistenza alla presenza – magari
egemonica – di organizzazioni comuniste al loro interno. I comunisti infatti
non chiudono gli occhi davanti alla realtà, magari nell’attesa che assomigli
alle loro aspettative, bensì partono da quelle che sono le condizioni materiali
per misurare il terreno sul quale costruire il loro agire politico. I comunisti
sul piano internazionale sono deboli, frammentati, quotidianamente attaccati e
repressi, e pagano errori storici del movimento; la scarsa rilevanza che
assumono, dunque, nei reali e concreti percorsi di resistenza è una mera
conseguenza di ciò. Non possiamo, però, per questo motivo negare l’appoggio ai
popoli in lotta: siamo infatti consapevoli che è solo in quelle lotte, e certo
non in una situazione di “pacificazione” con l’imperialismo, che i comunisti
possono rafforzarsi e guadagnare posizioni, fino ad assumere la direzione dei
movimenti stessi. Del resto, solo gli opportunisti appoggiano gli aggressori
nei paesi aggrediti; le organizzazioni che realmente provano a portare avanti
gli interessi della classe operaia – per quanto esigua e debole essa sia – combattono
senza indugio contro gli eserciti imperialisti e i loro mercenari assoldati.
Un’altra ragione ci porta a queste considerazioni, e riguarda principalmente i
comunisti delle metropoli imperialiste: la storia del movimento e del pensiero
comunista ci insegna, infatti, che i comunisti devono in primo luogo lottare
contro l’imperialismo del proprio paese, ed augurarsene la rapida sconfitta,
militare e politica, nei loro propri
interessi:
devono, di conseguenza, schierarsi senza dubbio con i popoli
resistenti. Inoltre, dato che in questo conflitto non esiste una posizione
terza, di neutralità o “indifferentismo” o peggio ancora di “equidistanza”, chi
non sta al fianco della lotta degli aggrediti sta di fatto al fianco degli eserciti degli stati aggressori. Per
questi motivi – sinteticamente espressi, in forma necessariamente superficiale
– riteniamo che compito dei comunisti sia quello di solidarizzare sempre e comunque con la resistenza dei popoli oppressi,
in particolare quando il proprio paese è in prima fila tra gli aggressori; è
necessario, poi, rafforzare e sostenere
in ogni modo possibile le componenti rivoluzionarie e comuniste negli attuali
processi di resistenza
, le uniche in grado di portare le lotte di
liberazione in una direzione coerentemente antimperialista, e di fare, quindi,
gli interessi di tutto il proletariato
internazionale;
l’assenza eventuale di componenti comuniste non determina
il venir meno dell’appoggio, dato che solo nel contesto di una lotta reale e
concreta contro le aggressioni militari dell’imperialismo i comunisti possono
rafforzarsi. Abbiamo precisato “rivoluzionarie e comuniste” proprio per fugare
ogni dubbio sull’ipotesi di sostenere senza esitazioni “chiunque si definisca
comunista”: il Partito Comunista Israeliano, ad esempio, che non lotta per la
distruzione dello Stato d’Israele, così come quello Giordano, o ancora quello
Iracheno filoamericano, che ancora oggi appoggia un governo “fantoccio”, non
sono espressione del proletariato internazionale, bensì esiti del peggiore revisionismo
e opportunismo, e la dimostrazione è proprio il rifiuto di opporsi nella realtà
all’imperialismo. Non è una parola d’ordine, o la “purezza ideologica” di un
programma, che può determinare il riconoscimento della necessità di appoggiare
un’organizzazione, bensì concretamente la parte che questa prende nel conflitto
che oppone borghesia imperialista e proletariato internazionale: spesso, anzi,
proprio i programmi di quelle organizzazioni che più coerentemente resistono
all’imperialismo saranno i più “contaminati”, data l’esigenza di portare dalla propria parte quelle classi intermedie,
piccola borghesia in primis, che in
assenza di uno sviluppo autonomo
delle forze produttive risultano determinanti nelle relative, e parziali,
vittorie contro l’imperialismo. Per fare, nel nostro piccolo, qualcosa di utile
nel senso sopra accennato, abbiamo deciso di riservare questo numero ad una
delle lotte di resistenza più durature è significative dell’ultimo secolo,
quella palestinese. Consapevoli, poi, che il rafforzamento dei comunisti nelle
lotte di resistenza passa per il sostegno che possiamo dare dalla metropoli,
traduciamo una selezione di materiale dei compagni del Fronte Popolare di
Liberazione della Palestina, insieme ad un’intervista ad Adel Samara, intellettuale
della sinistra palestinese. Dedichiamo, inoltre, questo numero alla memoria del
compagno George Habash, fondatore del FPLP e segretario generale
dell’organizzazione fino al 2000, morto il 26 Gennaio di quest’anno.

 

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REDAZIONALE

 

La crisi
che il capitalismo sta attraversando da più di trent’anni comporta la ripresa
su vasta scala di una politica imperialista e una crescita in termini
esponenziali della competizione fra capitalismi nazionali e/o fra poli
imperialisti (ved. Unione Europea). Tutto questo, oltre a incoraggiare lo
strutturale ricorso ad aggressioni militari, comporta, all’interno dei paesi
capitalisti, anche un forte inasprimento dei livelli di sfruttamento dei
lavoratori, attuato attraverso riforme strutturali che coinvolgono tutto
l’assetto della società. Visto il livello di avanzamento e di complessità di
questi processi, risulta assolutamente necessario, come comunisti, sviluppare
un livello di risposta adeguato alla fase, contro qualunque processo di
ristrutturazione interna che, inevitabilmente, comporta da un lato
l’intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro e dall’altro politiche
repressive verso i proletari in lotta. Negli ultimi anni, però, il movimento
non è riuscito sempre a respingere i provvedimenti che hanno destrutturato un
sistema di diritti e garanzie conquistati con lunghe e difficili lotte. Avviare
un lavoro in senso internazionalista diventa fondamentale per contrastare
l’impoverimento del dibattito e recuperare quella capacità di analisi e di
iniziativa che è stata espressa dal movimento comunista nella sua storia più
recente. Da questo ragionamento nasce l’esigenza di proporre un foglio con il
quale contribuire all’analisi e alla lotta. In quanto materialisti, infatti,
riteniamo di dover agire a partire dal nostro stesso territorio, utilizzando
qualunque mezzo sia nelle nostre possibilità per realizzare anche il più
piccolo avanzamento nel conflitto di classe. Dunque, anche un foglio può
svolgere il ruolo di stimolare un livello di analisi e di dibattito, che possa
risolversi in una reale pratica internazionalista e che passi attraverso la
coscienza del movimento di classe di trovarsi all’interno di processi sempre
riconducibili all’assetto globale del sistema capitalista. L’idea di utilizzare
un foglio per realizzare questo progetto può funzionare solo a condizione di
essere integrata in un terreno locale, esprimendo allo stesso tempo la volontà
di allontanarsi da esso per avviare un ragionamento più vasto, che conduca a
costruire un percorso internazionalista e che riqualifichi l’intervento sul
piano locale: si tratta di costruire uno spazio in cui sia possibile creare dei
collegamenti con le esperienze internazionali di lotta, e impostare il lavoro
che ci avviamo a intraprendere come lavoro aperto alle più diverse esperienze e
contributi, che possano risultare utili al rafforzamento e alla composizione
del movimento su un’impostazione internazionalista e di classe. Proprio per
questo, una pratica che sarà costante nel lavoro di MarxZine, sarà proprio la
raccolta e la traduzione di interviste e documenti che riguardano strutture,
movimenti e lotte che avvengono, lavorano e sussistono anche in altre nazioni o
continenti, sforzandoci di concepire una politica adeguata al processo di
mondializzazione del capitale. Per intraprendere questo percorso, però, c’è
bisogno di tutte i contributi possibili. Risulta difficile immaginare
un’operazione di così ampio respiro senza cercare collaborazioni esterne.
Questo tipo di foglio, infatti, trova il suo senso solo se lo si rende aperto a
ogni singolo compagno – o struttura di compagni – che voglia collaborare e dare
il suo contributo per muoversi nella direzione tracciata. Senza questa
condizione non si farebbe altro che rimanere in uno spazio particolaristico in
cui riproporre le proprie analisi in una continua e monotona ripetizione. Gli
articoli presenti in questo numero cercano di spaziare, nel modo più completo
possibile, dal protocollo del 23 luglio, alla penetrazione commerciale dell’ENI
in Kazakistan. Naturalmente, nonostante le cose possano sembrare scollegate ad
uno sguardo superficiale, lo scopo del lavoro sarà proprio quello di
rintracciare e evidenziare quegli elementi che permettono di trovare i
collegamenti fra tutti i fenomeni del capitalismo, vedendoli come tanti
elementi di un unico sistema. Il tentativo è quello di arricchire il movimento
reale con spunti d’analisi e riflessione veicolati in forme e strumenti che si
fondano col movimento stesso.                  

 

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